Parini e l’illuminismo (1956)

Parini e l’illuminismo, I, «Rassegna di cultura e vita scolastica», a. X, n. 10, Firenze, 31 ottobre 1956, continuazione e fine ivi, n. 11, 30 novembre 1956, poi in La cultura illuministica in Italia, a cura di Mario Fubini, Torino, E.R.I., 1957 e in W. Binni, Carducci e altri saggi, Torino, Einaudi, 1960.

Parini e l’illuminismo

Nel quadro della cultura illuministica italiana la poesia del Parini rappresenta la sintesi piú alta e originale di motivi ideali e di esigenze artistiche proprie di quella cultura: sintesi che supera con una coscienza letteraria e poetica piú sicura e personale le forme piú divulgative e seccamente razionalistiche di un semplice didascalismo insaporito da una piú esterna eleganza oraziana (la posizione dell’«util poeta e tosco Orazio» attribuita dal Bettinelli all’Algarotti) e supera insieme l’edonismo classicistico-rococò di un Savioli con un deciso impegno morale e con la forza persuasa di un alto messaggio umano e civile che originalmente traduce la fede fondamentale di una civiltà lucida e fervida, attiva e innovatrice.

Tutta l’opera del Parini si può sostanzialmente inscrivere nelle generali esigenze della civiltà illuministica, anche se di queste essa offre una versione particolare, caratterizzata da una personale misura morale e poetica che, come rifiuta le posizioni estreme dell’ideologia sistematica e le forme piú immediate di una concezione letteraria puramente didascalica e contenutistica, cosí nettamente reagisce poi alle tentazioni della sensibilità e del gusto preromantico, condannati dal poeta in nome della sua fedeltà alla tradizione italo-greca e alla luce di un preciso ideale di vita ispirato ai binomi inseparabili di Natura-Ragione e Piacere-Virtú[1].

Ideali che ben rappresentano compendiosamente l’incontro fondamentale nel Parini di ispirazioni illuministiche e umanistiche e sorreggono al centro lo svolgimento della sua opera, anche se le «costanti» pariniane del classicismo e dell’illuminismo si precisano in dosature di diversa intensità, attraverso una storia di fasi non opposte e rigidamente schematiche, ma duttilmente identificabili in un processo che dagli inizi arcadici e da posizioni piú combattive sale ad una piú alta fase finale, in cui il classicismo si fa piú chiaramente «neoclassicismo» nobile e virilmente sereno e la fede illuministica si depura in un ideale di saggezza umana piú personale e luminosamente poetico.

Si può discutere la precisa linea di tale storia, ma certo con l’attenzione ad essa pare anche piú facile proporre una immagine complessa e storica di fronte alle eventuali immagini contrastanti e forzate di un Parini come puro letterato arcadico-umanistico, a cui i contenuti civili e ideali potrebbero essere semplice pretesto di alta esperienza stilistica, e di un Parini poeta civile illuministicamente prerivoluzionario o addirittura presocialista.

E a proposito di questa seconda interpretazione occorrerà comunque subito precisare che, mentre la posizione illuministica del Parini ha una sua evoluzione quanto ad intensità polemica, essa è, in generale, contraddistinta da un forte senso di misura, di cautela, di concretezza, diffidente di ogni avventura e di ogni affrettata rottura dell’ordine presente. Come, già nel periodo piú combattivo, chiaramente ci attesta la significativa contrapposizione, nella «Cicalata in versi» I Ciarlatani, del ’62, tra il riformatore prudente che compie sicuri passi di progresso, iniziato con una autoriforma morale, e il rivoluzionario dottrinario e fanaticamente sistematico:

Un filosofo viene

tutto modesto, e dice:

– Bisogna a poco a poco,

pian pian, di loco in loco

levar gli errori dal mondo morale:

dunque ciascuno emendi

prima sé stesso e poi degli altri il male. –

Ecco un altro che grida:

– Tutto il mondo è corrotto;

bisogna metter sotto

quello che sta di sopra, e rovesciare

le leggi, il governare;

non è che il mio sistema

che il possa render sano. –

Credete al primo; l’altro è un ciarlatano.[2]

Prudenza riformatrice ben in accordo, del resto, con il concreto moto riformatore, a cui, nella Lombardia austriaca, il Parini attivamente collaborò, e che, d’altra parte, sarebbe ugualmente errato ridurre a timidezza e a gusto di compromesso ritardatore di un piú forte movimento storico, perché a quella prudenza non manca mai il genuino accento di una decisa persuasione, di una fede in un sicuro progresso umano, morale, civile che supera in profonda partecipazione personale quello che poteva essere un semplice accompagnamento dell’azione riformatrice ufficiale da parte di un poeta cortigiano.

Già nelle Poesie di Ripano Eupilino (1752) la tendenza classicistica alla evidenza dell’immagine e l’aspirazione morale ad un sano mondo naturale e razionale vengono affiorando, pur nei limiti della loro base arcadica. Di un’Arcadia, del resto, mossa da una dominante preoccupazione stilistica (cosí importante nella educazione e nella coscienza letteraria pariniana), ma non priva certamente di esigenze razionalistiche e morali, particolarmente vivaci nell’ambiente milanese, che aveva conosciuto le lezioni di serietà del Maggi, la sua attenzione alla realtà popolare, il suo amore per la poesia dialettale, cosí forte e significativo anche nella formazione del Parini, nelle sue polemiche giovanili contro una lingua arcaicizzante e distaccata dalla realtà concreta e contemporanea.

Ma la sostanziale adesione del Parini ai motivi illuministici, che venivano provvidenzialmente a rispondere alla sua nativa serietà morale, al suo bisogno di una poesia impegnativa ed educatrice, si può cogliere solo piú tardi, in quei componimenti scritti per l’Accademia dei Trasformati, in cui i temi piú accademici e generici, mentre sono utilizzati dal poeta per un esercizio di perfezionamento stilistico, coerente anche alle tendenze classicheggianti di quell’Accademia, vengono da lui sviluppati significativamente in chiara direzione illuministica, con un senso fervido dei nuovi valori che non si può ridurre a semplice curiosità per temi alla moda, a pretesto provvisorio di una esercitazione di puro letterato, indifferente al soggetto trattato.

L’Accademia propone il tema «la guerra», che poteva essere svolto in forme di pindarico elogio dell’eroismo o di arcadica evasione in un beato rifugio idillico e pastorale. E invece il Parini lo svolge (nell’epistola in versi Sopra la guerra, del 1758) in una ricca e vibrante epitome di motivi antimilitaristici, tutti giustificati in netta chiave illuministica: orrore umanitario per la strage di uomini innocenti, sdegno per la violenza e per le imprese di colonizzazione armata, rovente condanna della «ragion di stato» che induce i re a tradire la loro funzione di difensori della sicurezza collettiva e a spingere a certa morte

i miseri soggetti, i quai lo scettro

dato avean loro per salvar sé stessi

dall’esterno furore; e aver secure

all’ombra d’un signor vita e ricchezze,[3]

e replicata condanna dell’empia giustificazione delle guerre in nome della volontà divina, e delle anticristiane guerre di religione:

Empi! Che Dio

credêr sí ingiusto che a pugnar l’un frate

spinga coll’altro; e del lor sangue ei goda...

Che piú? cotanto osò l’orribil Furia

che di religion prese le spoglie,

e posto il ferro in mano all’uom, gli disse:

– uccidi pur; ché cosí il ciel comanda. –[4]

E se l’Accademia dettava come temi «il corpo umano» o «il fuoco», il Parini li svolgeva in un sonetto del ’59 che, nella nascita dell’uomo, realisticamente descritta, assicura la comune origine, l’uguaglianza di tutti i mortali («Cosí nasce il villano, il Papa, il re»), e nel frammento l’Autodafè, che dolorosamente dipinge la scena degli eretici condotti al supplizio seguendo

l’immagine di quel che per salvarne

morí sul legno.[5]

Dove l’attacco illuministico al fanatismo e all’intolleranza si precisa in quella tematica antiecclesiastica che, pur nella prudenza necessaria, nel pudore del «sacerdote» Parini e nel suo sincero rispetto del fondo cristiano della religione tradizionale, in chiave di fraternità egualitaria e umanitaria, ben si consolida e si sviluppa, al di là di questo periodo giovanile, nelle frequenti allusioni antifratesche e antivaticanesche, nel sonetto del ’73 per la soppressione dell’ordine dei Gesuiti, o nella severa pagina del Proclama in nome di Pasquale Paoli, del 1769, che sconsiglia, nella ricerca di persone adatte a «stendere un piano di università e di pubblico studio» sia i frati per il loro «spirito corrotto falso e fazionario», sia i preti,

perché per quanto io ho letto, veduto e provato colla sperienza, mi sono convinto che, dove il popolo è ignorante, il ceto degli ecclesiastici lo è egualmente: e tanto piú quanto che questo ceto, essendo ignorante, ha delle opinioni che direttamente s’oppongono allo avanzamento delle umane cognizioni, ed ha delle superstizioni che contribuiscono a far crescere ed a promulgare l’ignoranza medesima; e s’immagina d’avere un particolare interesse a coltivarla, né s’avvede che il maggiore interesse d’un cittadino si è l’interesse di tutti. Finalmente io ho veduto che, qualora si cominciano a spargere qualche lumi di verità in una nazione, non so se per le anzidette o per le altre ragioni, gli ecclesiastici son sempre gli ultimi a profittare e i primi ad impedirne il progresso, e sembra che essi temano che le verità filosofiche debbano recar pregiudizio alle verità della fede, quasi che la verità possa giammai condurre all’errore[6].

Mentre le nuove teorie egualitarie, cosí congeniali al suo fondamentale bisogno di giustizia, al suo alto senso della comune dignità di tutti gli uomini, vengono riassunte dal giovane Parini in un radicale assalto ai privilegi e alla boria della classe nobiliare, in quel Dialogo sopra la nobiltà, del ’57, che con tanta violenza e con punte di crudo realismo ribadisce la comune origine e la comune fine degli uomini:

Questo è un luogo (la tomba) dove tutti riescono pari; e coloro, che davansi a credere tanto giganti sopra di noi colassú, una buona fiata che sien giunti qua, trovansi perfettamente agguagliati a noi altra canaglia: ned ecci altra differenza, se non che, chi piú grasso ci giugne, cosí anco piú vermi sel mangiano.

E che porta all’estremo la spietata analisi della formazione piratesca dell’aristocrazia, i cui capostipiti furono tutti «usurpatori, sgherri, masnadieri, violatori, sicari»[7]. Cosí grida al nobile l’altro interlocutore del dialogo, che è, si badi bene, non un qualsiasi cittadino o filosofo, ma un poeta di origine plebea, perché il Parini affidava appunto ad un poeta nuovo (e uomo nuovo in una situazione di impegno concreto e personale) la missione di illuminare i suoi concittadini, di combattere le storture morali e sociali: una missione coerente al rinnovamento generale della cultura provocato da quel nuovo «spirito filosofico», che egli nel Discorso sopra la poesia, del ’61, vede investire, appunto, anche il campo della poesia conferendo a questa un compito nuovo di serietà e di utilità civile, senza con ciò farle perdere il suo carattere peculiare di superiore diletto, di incanto fantastico:

Lo spirito filosofico, che, quasi genio felice sorto a dominar la letteratura di questo secolo, scorre, colla facella della verità accesa nelle mani, non pur l’Inghilterra, la Francia e l’Italia, ma la Germania e le Spagne, dissipando le dense tenebre de’ pregiudizi autorizzati dalla lunga età e dalle venerande barbe de’ nostri maggiori, finalmente perviene a ristabilire nel loro trono il buon senso e la ragione. A lui si debbono i progressi che quasi subitamente hanno fatto per ogni dove le scienze tutte, e il grado di perfezione a cui sono arrivate le arti... La poesia medesima ha nuovi lumi acquistati dallo spirito filosofico: e, comeché abbia per una parte perduti i pomposi titoli che non solo i poeti, ma i maggiori filosofi ancora donati le avevano, di «celeste», di «divina» e di «maestra di tutte le cose», ha nondimeno ricevuto dall’altra un merito meno elevato, a dir vero, ma piú solido e piú certo[8].

Appunto, il merito di essere utile e dilettevole insieme (e in quanto dilettevole ancora utile agli uomini bisognosi di «un onesto piacer, vantaggioso» alla loro felicità individuale e sociale), come poi la poetica pariniana definisce la sua meta unitaria nella notissima chiusa programmatica e polemica della Salubrità dell’aria:

Va per negletta via

ognor l’util cercando

la calda fantasia,

che sol felice è quando

l’utile unir può al vanto

di lusinghevol canto.

Se nel binomio «utile e lusinghevol canto» ritorna l’oraziano e tradizionale utile dulci, non si può dire però che questa sia la stanca ripresa di un logoro luogo comune, perché nuova è la tensione ideologica e poetica di cui quei vecchi termini si caricano, nuovo è il commosso sentimento di una nuova città degli uomini e per gli uomini, della cui costruzione il poeta illuminista si sente attivo collaboratore, esaltando nella sua poesia la difesa combattiva dei nuovi valori e la prefigurazione affascinante del loro futuro inveramento in una civiltà sana, pacifica, attiva, sobria ed antiascetica, sorta su interessi e istinti originari diretti dalla ragione al bene inseparabile degli individui e della collettività, ottimisticamente luminosa in miti alti e semplici di serenità, di festa, di lieta fruizione di beni duraturi e non frivoli.

E si ricordi l’immagine, nell’Innesto del vaiuolo, della fecondità sana delle nuove generazioni salvate dal morbo mortale o deformante:

Come biada orgogliosa in campo estivo

cresce di santi abbracciamenti il frutto...

o l’immagine, nella stessa ode, degli onori resi al Bicetti, introduttore del vaccino in Italia:

Le giovinette con le man di rosa

idalio mirto coglieranno un giorno:

all’alta quercia intorno

i giovinetti fronde coglieranno;

e a la tua chioma annosa,

cui per doppio decoro

già circonda l’alloro,

intrecceran ghirlande e canteranno:

– Questi a morte ne tolse o a lungo danno –.

Sono queste le nuove feste della città illuministica, son questi i suoi nuovi eroi modesti e benefici: l’inventore e l’introduttore del vaccino antivaioloso, il giudice che applica i nuovi principi del metodo preventivo, l’educatore che alleva nuove generazioni all’amore civile del prossimo, all’esercizio delle virtú cittadine ed umane; e poi il magistrato onesto che si adopera per la prosperità e la giustizia della città da lui amministrata, e magari la prima fanciulla che si laurea in legge rompendo il pregiudizio dell’inferiorità intellettuale delle donne e iniziando la loro partecipazione piú attiva alla vita e al progresso della loro città.

E, del resto, quali erano gli stessi «santi» del passato per il sacerdote illuministico? Santa Caterina Moriggia, che

de’ poverelli asciugò il pianto

con acqua e pane, e li raccolse al seno,

utile agli altri e al suo Signor piú cara,[9]

o san Girolamo Miani, che di fronte a tutti i poveri, qualunque sia la loro razza e la loro idea,

offrirà la sua povera mensa

e vorrà parte aver ne la lor fame;

perocché tutti con affetto eguale

sa gli uomini abbracciar quell’alma immensa

e fa suo cittadino ogni mortale.[10]

In questa posizione, che recupera in direzione illuministica gli elementi umanitari ed egualitari di un cristianesimo depurato di ogni carattere dogmatico e autoritario, le prime Odi (vere battaglie per l’instaurazione della nuova città, che nella sua particolare concretezza è poi la Milano del tempo) si alimentano di fondamentali motivi della nuova cultura. Sia nella polemica contro ogni offesa alla dignità e integrità umana (dall’invettiva contro l’impostura, che illuministicamente associa agli impostori dell’epoca i falsi profeti di civiltà fondate sulla superstizione e l’inganno, Numa Pompilio o Maometto, a quella contro l’evirazione di fanciulli per averne «voci bianche»), sia nell’esaltazione lieta e fervida di un nuovo ordine civile, scaturito non da imperativi astratti, ma da una concezione vitale e serena che unifica Natura e Ragione, Piacere e Virtú, inseparabili in un armonico equilibrio che verrebbe rovinosamente alterato da un incontrollato abbandono agli istinti naturali o dagli eccessi di un razionalismo astratto e schematico:

Tal del folle mortal, tale è la sorte:

contra ragione or di natura abusa,

or di ragion mal usa

contra natura che i suoi don gli porge.[11]

E come nell’ode L’educazione i «pronti affetti» che il cielo pone nel cuore del giovane Achille sono la radice delle «grandi cose», della «somma virtude» che «l’alma rettrice», la ragione, «ne elice», cosí in un «pensiero» piú tardo il Parini preciserà la sua armonica visione di una vita razionale e naturale nello svolgimento morale e civile di sensazioni piacevoli piú che nella stessa adesione a principi soprannaturali:

Dio e la Natura ci comandano di vivere non già solamente con una legge scritta e pubblicata, come proveniente dai motivi superiori della religione e dall’amore dell’ordine universale ben conosciuto; ma molto piú con una infinita e variata serie di sensazioni piacevoli, delle quali, rispettivamente a noi, è composto e formato il nostro vivere[12].

L’utile dulci precisa cosí le sue nuove componenti illuministiche e, nella stessa poetica che guida il Parini nella costruzione delle prime Odi, elementi razionalistici e sensistici rinnovano e colorano chiaramente le esigenze classicistiche di lucidus ordo della struttura e di perspicuitas delle immagini, sia nella direzione di un vagheggiamento di figure di sanità e di virtú razionale e piacevole, sia in quella di una efficace rappresentazione di immagini repellenti di miseria, come quella delle «spregiate crete» che

d’umor fracidi e rei

versan fonti indiscrete,

onde il vapor s’aggira

e col fiato s’inspira

(nella Salubrità dell’aria) o quella, allucinante nella sua violenza compendiosa, del delitto per fame, nel Bisogno:

mangia i rapiti pani

con sanguinose mani.

Ma, in questa direzione piú polemica della poetica pariniana, il rapporto fra nitida evidenza classicistica e pregnante efficacia razionale e sensuosa si sposta spesso troppo verso il secondo termine, sino a forme di durezza quasi prosastica, corrispettivo di una certa difficoltà a muoversi sulla «negletta via», e, piú, di una certa outrance di energia evidenziatrice e semplificatrice, specie laddove essa indurisce schematicamente la descrizione di azioni perentorie e invincibili, come quella del bisogno nell’ode omonima:

Di valli adamantini

cinge i cor la virtude,

ma tu gli urti e rovini

e tutto a te si schiude.

Entri, e i nobili affetti

o strozzi od assoggetti.

Questa posizione audace e rischiosa non poteva essere certo il termine definitivo della poetica del Parini (non poeta del bando estremo del «Caffè», «cose, non parole», ma di parole poetiche nutrite di cose) e in questa stessa fase piú esplicitamente illuministica venne sviluppandosi una poesia piú complessa e sicura, in cui l’impegno rinnovatore si cala in una rappresentazione e descrizione ironico-satirica, con un impasto di sdegno e di sorriso, di forza e di morbidezza, di eleganza e di evidenza, in cui piú intimamente si fondono la costante classicistica e le componenti illuministiche e sensistiche.

Nacque cosí il Giorno, in cui Parini sceglieva un preciso argomento (la satira della nobiltà lombarda) ben intonato alle stesse direzioni del riformismo teresiano, prudente, ma deciso – di fronte alla situazione arretrata della Lombardia – a rompere i vincoli e i residui feudali, a liberare l’attività economica e agricola dai privilegi gravosi di una nobiltà parassitaria ed oziosa, in un’opera di rinnovamento che venne sviluppata poi da Giuseppe II in forme ancora piú decise e sistematiche.

Cosicché nell’85, in periodo appunto giuseppino, il Parini poteva vantarsi di aver precorso, già venti anni prima, le intenzioni del nuovo sovrano:

Né paventai seguir con lunga beffa

e la superbia prepotente e il lusso

stolto ed ingiusto e il mal costume e l’ozio

e la turpe mollezza e la nemica

d’ogni atto egregio vanità del core.

Cosí, già compie il quarto lustro, io volsi

l’itale Muse a render saggi e buoni

i cittadini miei: cosí la mente

io d’Augusto prevenni...[13]

Certo questi versi, che appartengono a un periodo piú tardo e aprono un interessante spiraglio sulla disposizione piú pacata, e pur sempre energica, del Parini piú senile, paiono caratterizzare soprattutto il Giorno in senso chiaramente riformistico e non eversore, nei riguardi della nobiltà piú da correggere e da recuperare alla nuova civiltà che da sradicare totalmente come vorrà l’estremistico Alfieri della Tirannide.

Ma se anche questa indicazione può concorrere a smorzare le tentazioni di una lettura del Giorno in direzione intenzionalmente prerivoluzionaria o addirittura presocialista, essa d’altra parte ben conferma a posteriori la presenza nel poemetto di una illuministica volontà rinnovatrice, che, nel periodo in cui il Giorno venne impostato e svolto nelle sue due prime parti (1763-65), appare anche piú energica nella contrapposizione costante di un ordine ingiusto e antistorico, di una società corrotta, e di un popolo portatore di istintive virtú, e di una vita sana e laboriosa. Nel forte inequivoco riferimento al motivo della naturale uguaglianza degli uomini, che anima amaramente, per contrasto, la rappresentazione della stolta, malvagia superbia dei «semidei terreni», e, persino in forme di flautata, elegantissima ironia, ribadisce la sua naturale e razionale verità:

Forse vero non è; ma un giorno è fama

che fur gli uomini eguali, e ignoti nomi

fur plebe e nobiltade. Al cibo, al bere,

all’accoppiarsi d’ambo i sessi, al sonno

un istinto medesmo, un’egual forza

sospingeva gli umani...

Per non parlare dei molti motivi di origine illuministica che, legati al tema centrale e funzionanti in relazione a quello (ad esempio il motivo dell’avversione al colonialismo violento, nel passo dei conquistadores), nel Mattino, pur vibrano di un loro particolare vigore di sdegno e del fondamentale, amaro sdegno umanitario che alimenta i momenti piú alti e complessi del poemetto, come il celebre episodio della vergine cuccia, mirabile per il confluire di tutti gli elementi di quella poesia in una rappresentazione perfetta ed animata (descrizione icastica e squisita di oggetti e azioni, tesa da ironia e sdegno) della elegante vuotezza e spietatezza di una società che, perduta la stessa energia di un passato duro, ma vitale, corrompe e devia in frivolezza, in edonismo egoistico, in disumana insensibilità, gli stessi nuovi valori portati dallo spirito filosofico.

Perché, in un esame del Giorno come verifica di posizioni sostanzialmente illuministiche, essenziale è l’osservazione che, se l’oggetto della rappresentazione ironico-satirica del poemetto, la classe nobiliare lombarda, importa un elemento di fascino per le sue qualità di eleganza (che a suo modo attrae il poeta del classicismo sensistico e rococò, il descrittore di oggetti squisiti nel giro armonioso e lucido che li evidenzia e li illumina), quel mondo è pur tutto legato – attraverso l’ironia che ne permette una cosí complessa e quasi ambigua esistenza – alla condanna della sua futilità, alla netta indicazione della sua incomprensione e frivola contaminazione dei nuovi valori di Ragione-Natura, Piacere-Virtú.

Alla luce di questi valori e della interpretazione armonica ed equilibrata che il poeta ne offre, si chiarisce anche l’effettivo significato di quello che a taluni è apparso come un netto contrasto col «secol folle»[14], una rivolta del Parini, celebratore di virtú tradizionali di sincerità e sobrietà, contro gli eccessi libertini, l’empietà, lo spirito distruttivo delle posizioni estreme dell’illuminismo. Certo il Parini, nella sua misura, nel suo ideale civile e morale di prudenza e di concretezza, ha una sua discussione nell’ambito vario e ricco dell’illuminismo, ma tale discussione non esclude affatto la sua adesione ai motivi di fondo della nuova cultura, e, del resto, le battute contro i «novi sofi», a ben guardare, non sono l’espressione di un atteggiamento di generale reazione, quanto – soprattutto nella particolare situazione del Giorno – la distinzione fra le posizioni essenziali dei «volumi famosi» (eguaglianza degli uomini, luce della ragione ecc.) che i nobili non comprendono, e le volgari e frivole conseguenze edonistiche di un facile enciclopedismo da quelli malamente orecchiato, nel segno della moda e della esteromania, per confortarne la loro vita oziosa e viziosa.

E cosí, se in certi elogi dell’antica nobiltà rude e attiva (ma l’analisi piú risoluta del Dialogo sopra la nobiltà pur si ripercuote nel rilievo della sua origine predatoria e violenta, e in quei dubbi elogi si deve soprattutto rilevare un motivo di ulteriore sottolineatura della decadenza attuale di una classe che non ha piú una sua funzione ed ha perso anche la forza vitale dei suoi antenati) si potrebbe intravvedere l’indicazione di una simpatia del poeta per epoche energiche e rudi, è anche ben chiaro però come sostanzialmente il Parini fosse ben lontano da qualsiasi piena valorizzazione di epoche prive dei «lumi» dello spirito filosofico razionalistico.

Il giudizio pariniano del passato è infatti nettamente illuministico. Come si può verificare in quella recensione del Quadro dell’istoria moderna del Mehegan, che consolida recisamente la squalifica pariniana del medioevo come epoca di superstizione, di ferocia, di dogmatismo teologico, da cui la nuova civiltà si è venuta liberando nelle sue condizioni laiche e razionalistiche, o in quella pagina della relazione al Firmian Delle cagioni del presente decadimento delle belle lettere e delle belle arti in Italia, in cui l’epoca della Controriforma è considerata come epoca di netta involuzione e ben si chiarisce una significativa condanna del Seicento non solo come reazione arcadica di gusto antibarocco, ma in un accordo di storia e di letteratura, di condizioni politiche ed espressione artistica, coerente ad una diagnosi che nell’illuminismo ha avuto la sua origine:

Nessuno negherà certamente che l’oppressione della libertà fiorentina, l’eccessiva potenza degli spagnuoli in Italia, che ne facevano barbaramente tiranneggiare le piú belle contrade da’ loro governatori, la caduta della grandezza veneta dopo la lega di Cambrai, la ipocrisia introdottasi nella corte di Roma dopo la riforma di Lutero e la crudeltà dell’Inquisizione, spezialmente dopo il Concilio di Trento, non abbiano spento in Italia ogni sentimento di gloria nazionale, di nobile emulazione ed ogni libertà pubblica di pensare, e quindi sommamente avviliti gli animi di quasi tutti gli italiani. Ciò doveva dare alle belle lettere ed alle belle arti in Italia il carattere della servitú, della mediocrità e della barbarie[15].

Anche al di là del periodo piú combattivo delle prime Odi e dell’impegno satirico piú forte nelle prime due parti del Giorno, permane la fondamentale adesione del Parini agli ideali illuministici, e la stessa collaborazione all’attività riformatrice di Giuseppe II (malgrado alcuni spunti di critica a certi suoi atti precipitosi – La tempesta – e avvertimenti di prudenza rilevabili in un sonetto rivoltogli in occasione del viaggio di Pio VI a Vienna[16]) conferma la persistente volontà riformatrice pariniana, anche nei termini significativi con cui, in un sonetto dell’84, il Cesare austriaco è rappresentato nel tipico atteggiamento di un deciso sovrano «illuminato» che:

all’oppresso mortal da forza indegna

or la mente ora il piè liberi rende...

Tuttavia anche nel Giorno, nella sua continuazione piú tarda, si può avvertire una minore tensione dell’elemento combattivo, un maggiore agio di larga rappresentazione di scene in cui prevalgono un sorriso e un’ironia meno carichi di sdegno e di amarezza, mentre, nelle stesse correzioni piú tarde alle prime due parti, il poeta tende ad uno smorzamento delle punte piú acri e realistiche in una direzione, discutibile quanto a precisi, puntuali esiti artistici, ma che comunque (pensando poi ai piú alti risultati poetici delle ultime Odi) non può ridursi a puro indice di una generale involuzione artistica o a segno di una generica cura di revisione piú letteraria.

Quello smorzamento corrisponde infatti ad una attenuazione della polemica antinobiliare, relativa anche ai primi successi dell’azione riformatrice in Lombardia, ma soprattutto si collega a tutto un orientamento dell’animo e della poetica dell’ultimo Parini, ad un processo di intima maturazione della visione vitale e artistica del poeta[17].

E questa implica non un abbandono o un rifiuto dei suoi essenziali ideali culturali, etici e civili, ma un loro superiore rasserenamento, un loro trasferimento in una zona sentimentale e fantastica piú distaccata e contemplata, in cui sempre piú ci si allontana dalla posizione apertamente combattiva delle prime Odi, dalla loro tematica di precise particolari battaglie contro precisi errori morali e sociali legati persino, a volte, a motivi di «cronaca» milanese.

Sicché gli stessi atteggiamenti di severa condanna degli elementi di turbamento e di corruzione nella nuova civiltà (la diagnosi potente della genesi della corruzione femminile in A Silvia, il quadro energico dei rapporti fra i potenti e i loro cortigiani nella Caduta) assumono ora un tono insieme piú solenne e piú distaccato, mentre gli ideali della fervida fede pariniana vengono celebrati in forme piú alte e nobili, incarnati in miti perfetti e puri, in figure elette e caste, entro un rapporto di sentimenti piú calmi e universali, in un clima di saggezza e di nobiltà spirituale. Cui corrisponde una costruzione piú lineare e distesa, una musica piú profondamente e pacatamente suggestiva, con modi espressivi meno icastici e pregnanti, con immagini e figure piú serene e composte anche quando vibrano di un’intima letizia vitale, del fascino della loro elegante e sensibile bellezza, della commozione del poeta per il loro significato di superiore pienezza etico-estetica.

In questo sviluppo finale della poetica pariniana – su cui molto incisero il gusto neoclassico figurativo, l’efficacia delle teorie winckelmanniane, delle quali il poeta venne originalmente accogliendo sollecitanti moduli teorico-programmatici (nobile semplicità e tranquilla grandezza, grazia sublime e movimento in potenza) congeniali al suo animo piú rasserenato e contemplativo – i termini essenziali della sua ricerca artistica e delle sue aspirazioni ideali si trasvalorano in una disposizione superiore, che, ripeto, non implica frattura e opposizione, ma interiore svolgimento della sua storia sentimentale, culturale e poetica.

Cosí il rapporto «utile dulci» si svolge in quello di «buono e bello», il «lusinghevol canto» diviene la poesia che

orecchio ama placato

... e mente arguta e cor gentile

e la poesia stessa acquista un valore piú alto e consolatore, conforta piú dall’intimo la serena visione di una civiltà razionale e naturale, piacevole e virtuosa, in cui tutti questi attributi hanno raggiunto una loro qualità piú universale e profonda.

Come possono bene indicare, con tutte le implicite considerazioni stilistiche che essi comportano, i versi che – in Alla Musa, il supremo «messaggio» della poetica pariniana – definiscono la condizione di una vita nobilmente sentimentale e profondamente, civilmente educata, schietta e aristocratica insieme, illuminata dalla poesia:

Sai tu, vergine dea, chi la parola

modulata da te gusta od imita;

onde ingenuo piacer sgorga, e consola

l’umana vita?

Colui cui diede il ciel placido senso

e puri affetti e semplice costume;

che, di sé pago e dell’avito censo,

piú non presume;

che spesso al faticoso ozio de’ grandi

e all’urbano clamor s’invola, e vive

ove spande natura influssi blandi

o in colli o in rive;

e in stuol d’amici numerato e casto,

tra parco e delicato al desco asside;

e la splendida turba e il vano fasto

lieto deride;

che ai buoni, ovunque sia, dona favore;

e cerca il vero; e il bello ama innocente;

e passa l’età sua tranquilla, il core

sano e la mente.

Non era un’evasione, un abbandono delle posizioni pariniane precedenti, ché come in questa poesia piú alta permaneva la esigenza essenziale di una parola viva e sensibile, chiara e precisa (l’acquisto sicuro delle prime Odi e del Giorno in corrispondenza ad un incontro centrale di classicismo e illuminismo), cosí in questo ideale piú sereno e contemplato viveva ancora la forza di una fede attiva, umana e civile, profondamente partecipata e personalmente precisata, che si era accesa nel Parini alla luce del movimento illuministico e che dette al suo stesso complesso atteggiamento di fronte alla rivoluzione francese e alla situazione della repubblica cisalpina un valore ben diverso da quello che avrebbe avuto in un letterato puro o in un semplice esterno portavoce delle idee del proprio tempo.


1 Rimando, per un’ampia considerazione dell’opposizione del Parini alle manifestazioni del gusto preromantico in Italia, al capitolo La sintesi pariniana, del mio Preromanticismo italiano, Napoli 1948 (19592), cosí come rimando, per un piú particolare rilievo alla componente neoclassica nello sviluppo dell’ultimo Parini, al mio saggio Il neoclassicismo e la poesia del Parini (ora in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Nuova Italia, Firenze, 1963, 19672), e per un generale profilo pariniano al capitolo sul Parini ne Il Settecento (Storia della letteratura italiana, Garzanti, Milano, 1968, pp. 795-906).

2 G. Parini, Poesie, a cura di E. Bellorini, Bari 1929, II, p. 112.

3 Poesie cit., II, p. 171.

4 Ivi, pp. 171-172.

5 Poesie cit., II, p. 167.

6 G. Parini, Prose, a cura di E. Bellorini, Bari 1915, II, pp. 221-222.

7 Prose cit., II, p. 28.

8 Prose cit., pp. 315-316.

9 Poesie cit., II, p. 284.

10 Ivi, p. 256.

11 L’innesto del vaiuolo, vv. 227-230.

12 Prose cit., I, p. 381.

13 Al consigliere Barone de Martini, in Poesie cit., II, p. 176.

14 Cfr. A. Accame Bobbio, Parini, Brescia 1954, e la mia recensione in «La Rassegna della Letteratura Italiana», 1955, 3-4, pp. 627-629 (ora in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit.).

15 Prose cit., I, p. 357.

16 Poesie cit., II, pp. 266-267. Ma un primo sonetto rivolto al papa come era fortemente regalistico e anticuriale!

17 Per questo sviluppo dell’ultimo Parini in direzione neoclassica rimando al mio saggio Il neoclassicismo e la poesia del Parini cit.; al mio citato capitolo Settecento (Storia della letteratura italiana cit.); nonché alla mia recensione al libro di Petronio, Parini e l’illuminismo lombardo, Milano 1960, in Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento cit. e alle pp. 70-72 della mia Poetica, critica e storia letteraria cit. in cui riprendo la discussione con il Petronio, che qui riporto: «Se prendiamo il caso del Parini e del suo ultimo svolgimento sarà errore, e proprio errore storico-critico e non errore del semplice “gusto” e di una lettura di gusto, equiparare una minor tensione dell’impegno combattivo delle prime Odi e delle prime parti del Giorno, dell’entusiasmo illuministico e riformatore del poeta – del resto ben diversi anch’essi dalle posizioni di un propagandista e di un collaboratore contenutistico del governo riformatore austriaco e perciò non svalutabili a materiali indifferenti al lavoro di un puro letterato e stilista di ascendenza arcadica –, a una involuzione poetica che smentirebbe il tradizionale omaggio critico alle ultime Odi. Certo, si deve costatare un maggiore isolamento del poeta nel suo mondo morale e fantastico, nel vagheggiamento di alte figure di “calocagatia”, una maggior pacatezza e distanza dai suoi impegni polemici e satirici piú aperti, e un coerente mutarsi della sua poetica, del suo linguaggio da forme piú icastiche, sensuose e frizzanti a forme piú innografiche, piú distese e serene, appoggiate al piú preciso contatto del Parini con il gusto figurativo neoclassico. Ma sia chiaro anzitutto che questo contatto e svolgimento di gusto neoclassico non si risolve affatto in una adesione passiva alle forme piú illustrative e archeologiche di tanta letteratura neoclassica e corrisponde a un interno bisogno di alleggerimento e rasserenamento dell’animo pariniano e della poesia pariniana legato alla coscienza (non importa se in parte illusoria) di una battaglia sostanzialmente vittoriosa e di una necessità piú di costruzione civile che di polemica. E cosí questo sviluppo (configurabile dall’esterno come involuzione rispetto all’impegno illuministico e adesione all’evasività neoclassica) è tutt’altro che improduttivo poeticamente ed anzi conduce ad uno sviluppo poetico piú alto in cui gli ideali pariniani illuministici di Natura-Ragione, Piacere-Virtú, che sorreggevano il suo stesso impeto e la sua polemica satirica precedenti, si sono approfonditi e meglio disposti a vita poetica, fatti ancor piú persuasi e luminosi, piú personali e universali. E l’affinamento di sensibilità e di gusto (“orecchio ama placato la Musa e mente arguta e cor gentile”) e l’impegno di una poetica meno pungentemente didascalica han ridotto i margini piú sforzati, la ricerca di efficacia pregnante, a volte condotta fino al tour de force di cui parlava la Staël, senza perdere i frutti delle precedenti esperienze e senza risolversi in una evasività blanda e diafana: come potrebbe sembrare a qualche orecchio duro e a una considerazione storica insufficiente perché incapace di superare l’aspetto documentario delle opere d’arte e di intender di queste il dialettico rapporto con le esigenze di poetica dello scrittore e con tutto ciò che in quella vive di vitale e di personale-storico».